GLI SCENARI DEL PROCESSO DI RATIFICA - Sud in Europa

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GLI SCENARI DEL PROCESSO DI RATIFICA

Archivio > Anno 2005 > Giugno 2005

di Ennio TRIGGIANI (Ordinario di Diritto ell'Unione europea nell'Università degli Studi di Bari)    
1. Le gravi difficoltà prodottesi nel processo di ratifica del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (“Trattato costituzionale”), al di là delle implicazioni squisitamente politiche, hanno costretto tutti a ricordare che l’Unione Europea (UE), pur originale espressione di una Unione di Stati i quali hanno dato vita ad un ordinamento giuridico sui generis, trova tuttavia il suo fondamento nel Trattato istitutivo e quindi nel diritto internazionale.
È vero che i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali presentano sotto più profili “carattere costituzionale” e che, in tal senso, la stessa Corte di giustizia delle Comunità europee ha qualificato la Comunità Europea (CE) come “carta costituzionale di base” (sentenza Les Verts del 23/4/86, ad es.). D’altronde, lo stesso ricorso al verbo “adotta” (una Costituzione per l’Europa) in luogo di un possibile “istituisce” evidenzia la prudenza della presa d’atto di una realtà che in fondo esiste già e che viene formalizzata: l’esempio dell’art. I-6 con cui si sancisce la prevalenza del diritto dell’Unione, già riconosciuta in via giurisprudenziale, appare emblematico. E tuttavia ci muoviamo pur sempre nell’ambito delle fonti internazionali considerato che, ancora per la Corte di giustizia, gli Stati possono procedere senza limiti alle modifiche del Trattato (sentenza Beune del 28/9/94 ).
Proprio alla luce di queste precisazioni si comprende la duplice circostanza per cui l’entrata in vigore del Trattato costituzionale sarebbe legata (si chiarirà successivamente l’uso del condizionale) alla ratifica di tutti i 25 Stati Membri (art. IV-447) e che la procedura di revisione ordinaria (art. IV-443) è anch’essa sottoposta ad identica modalità. L’UE non è quindi titolare di un autonomo potere di revisione e del resto le stesse “Procedure semplificate” di revisione della parte III (artt. IV- 444 e 445) non sfuggono a tale limite. Nel primo caso, infatti, è solo possibile trasformare il criterio dell’unanimità in Consiglio con quello della maggioranza qualificata (ad eccezione per la materie attinenti questioni militari o di difesa) attraverso una mera decisione unanime del Consiglio europeo, purché non si opponga alcun Parlamento nazionale e sussista la maggioranza favorevole del Parlamento europeo. Nel secondo, la modifica delle disposizioni concernenti le politiche ed azioni interne dell’Unione è “alleggerita” tramite la “scorciatoia” della delibera unanime del Consiglio europeo senza dover ricorrere alla ben più lunga ed articolata procedura della “Convenzione” (istituita nel Consiglio europeo di Laeken del dicembre 2001 e fatta propria dall’art. IV-443, che affida a rappresentati non solo governativi ma anche dei Parlamenti nazionali, del Parlamento europeo e della Commissione il compito di elaborare il relativo progetto di trattato).
Ne deriva che potremmo parlare, sotto questo profilo, di “Costituzione” in senso proprio solo quando potranno le stesse istituzioni dell’Unione procedere a tale modifica attraverso una procedura di “autorevisione” (magari affidata ad un voto unanime del Consiglio per rispettare comunque il peso della sovranità nazionale).
È quindi il persistente carattere intergovernativo (e quindi il fondamento del diritto internazionale) a condizionare in termini significativi l’ipotesi, peraltro già divenuta realtà, della mancata ratifica da parte di uno o più Stati.
La strada da imboccare, all’attuale stato delle cose, è indicata dalla Dichiarazione n. 30, allegata al Trattato costituzionale, che ripropone quanto previsto dal par. 4 del citato art. IV-443 riguardo alla “Procedura di revisione ordinaria”. In essa è previsto che, ove almeno i quattro quinti dei Paesi Membri (e cioè 20 Stati) abbiano depositato lo strumento di ratifica, il Consiglio europeo “deve” riunirsi per affrontare “politicamente” il problema. Si tratta di un vero e proprio pactum de negotiando rafforzato dal principio generale della “buona fede” (art. 18 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969) nonché dall’obbligo di leale collaborazione sancito dall’art. 10 del Trattato della Comunità Europea (TCE).
L’assenza di una generalizzata ratifica suscita comunque una prima considerazione e cioè la spiacevole ed implicita sconfitta del suddetto metodo della “Convenzione” accentuato dalla circostanza che il nuovo Trattato ha introdotto la democrazia partecipativa come principio di funzionamento dell’Unione anche attraverso il diritto di iniziativa popolare (art. I-47).

2. A questo punto diviene necessario soffermarsi sulle conseguenze giuridicamente sostenibili di tale situazione. Vari autori si sono già espressi offrendo soluzioni diverse ed ipotizzando molteplici ipotesi di possibile applicazione anticipata e provvisoria di alcune parti del “Trattato costituzionale” (Tosato-Greco, Rossi, Lamoreux, Philippart, Ponzano, Tarschys…).
Senza soffermarci sulle ipotizzate opportunità di anticipare attraverso qualche idoneo escamotage istituzionale la nascita di alcune delle novità espresse dal Trattato costituzionale (personalità giuridica, Presidente del Consiglio europeo, Ministro degli affari esteri, sussidiarietà e Parlamenti nazionali,…) ci limitiamo, in questa sede, ad una riflessione di carattere più generale.
Condivido infatti l’opinione di quanti (Tosato-Greco) ritengono che la valutazione delle conseguenze della mancata ratifica da parte di uno o più Paesi vada operata partendo dalla previa valutazione se il “Trattato costituzionale” costituisca una mera revisione del Trattato di Roma del 1957 oppure rappresenti una vera novità ed una nuova “frontiera” dei rapporti tra gli Stati Membri e quindi una vera e propria Costituzione in fieri.
Nel primo caso saremmo certamente sotto il “dominio” dell’art. 48 del Trattato dell’Unione Europea (TUE) per cui “gli emendamenti entreranno in vigore dopo essere stati ratificati da tutti gli Stati membri conformemente alle loro rispettive norme costituzionali”. L’art. 48 andrebbe letto allora insieme alla Dichiarazione n. 30 allegata al “Trattato costituzionale” essendo ad essa certamente omogeneo.
E tuttavia c’è da chiedersi se il suddetto “Trattato costituzionale” si limiti ad introdurre solo degli “emendamenti” al Trattato di Roma del 1957 o se invece esso produca nel sistema vigente modifiche molto più profonde quali sembrerebbero evidenziate dall’ inusuale “bocciatura” referendaria.
In realtà non va sottovalutata la circostanza per cui che l’art. IV-437, per la prima volta, dispone l’abrogazione del TCE e del TUE e che il successivo art. IV-438 fissa la “successione” fra i due Trattati pur nella ovvia “continuità giuridica”.
Sorge allora la questione se non ci si trovi di fronte ad un vero e proprio “nuovo Trattato”, evidenziato a partire dal profilo puramente nominalistico della “adozione di una Costituzione per l’Europa” che già potrebbe sottolineare una “discontinuità” tra gli stessi.
Ove si seguisse tale ragionamento apparirebbe evidente la difficoltà di applicare l’art. 48 ad una “sostituzione” o ad una “rifondazione” dell’Unione Europea. Il nuovo fondamento giuridico andrebbe allora cercato nell’art. IV-447 attraverso una interpretazione apparentemente discutibile ma certo non esclusa a priori dal suo tenore letterale. Il par. 2, infatti, prevede l’entrata in vigore “dal primo giorno del secondo mese successivo all’intervenuto deposito dello strumento di ratifica da parte dello Stato firmatario che procede per ultimo a tale formalità”. Frase che può essere interpretata nel senso dell’ “ultimo fra gli Stati firmatari che si siano espressi favorevolmente a conclusione delle venticinque espressioni di voto e quindi una volta che altri abbiano ormai manifestato una volontà negativa.
Si tratta di una soluzione ben nota al diritto internazionale per gli accordi multilaterali ed anche per accordi di altissimo rilievo quale ad esempio il Patto delle Nazioni Unite del 1966 (l’art. 51 ne prevede l’entrata in vigore sulla base della mera maggioranza degli Stati parti).
È peraltro evidente che l’abrogazione di TUE e TCE ex art. IV-437 non può che riguardare i Paesi ratificanti per il principio pacta tertiis nec nocent nec prosunt (di cui all’art. 30 della Convenzione di Vienna del 1969). D’altronde la conseguente coesistenza dei due Trattati non è certamente semplice considerata la particolare natura degli stessi ed il relativo assetto istituzionale.
Sorgerebbe allora il problema della denuncia da parte dei Paesi ratificanti del “Trattato costituzionale” rispetto ai rimanenti Stati non ratificanti. Si riproporrebbe, mutato ciò che va mutato, l’approccio interno all’art. 307 TCE (ex art. 234) con il quale, pur nel rispetto del principio pacta sunt servanda, gli Stati membri della CE si aiutano reciprocamente a liberarsi degli impegni incompatibili assunti con Paesi terzi prima della ratifica del TCE.
Formalmente, l’esercizio di una clausola di recesso, anche se non prevista da TUE e TCE, appare possibile per 3 circostanze:
1) anzitutto l’art. 56,1,b della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati consente la denuncia quando una clausola implicita sia desumibile dalla “natura del trattato”. Ed i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali rientrerebbero in tale categoria, evidenziando una implicita e comune consapevolezza delle parti di partecipare alle stesse solo in maniera “precaria”.
2) Sussiste nello stesso sistema comunitario il precedente, per quanto limitato e particolare, della Groenlandia.
3) Il “Trattato costituzionale”, nonostante il proprio più “avanzato” carattere, prevede espressamente tale clausola di recesso nell’art. I-60.

3. Questo scenario è tuttavia legato ad un’ipotesi, a mio avviso lontana dalla realtà, di gestione “politicamente contenziosa” del dopo ratifiche.
Gli scenari politicamente più realistici appaiono altri e legati comunque al numero ed all’importanza degli Stati che dovessero decidere di non ratificare:
a) Il primo è quello, riduttivo, della semplice presa d’atto da parte del Consiglio europeo della mancata entrata in vigore fermando l’orologio del progresso nell’integrazione e rinviandolo a tempi migliori (ed è in fondo quanto per ora deciso nel Consiglio europeo di Bruxelles, attraverso il “congelamento” delle procedure di ratifica anche se per un tempo apparentemente limitato). Questa soluzione costituirebbe un duro colpo per i fautori di una Unione sempre più integrata politicamente e protagonista sulla scena internazionale e darebbe fiato ai sostenitori di una integrazione europea sempre più larga nella partecipazione soggettiva ma limitata agli aspetti economici.
Sarebbe poi non coerente con l’art. 1 del TUE per cui “Il presente Trattato segna una nuova tappa nel processo di creazione di una Unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa….”, con la ratifica avvenuta comunque negli altri Stati ed in particolare con la nostra ratifica che è rafforzata dal referendum costituzionale del 1989. Quest’ultimo, si ricordi, aveva affidato al Parlamento europeo il compito di “redigere un progetto di Costituzione europea”.
b) Il secondo scenario potrebbe portare alla individuazione di alcune parti del “Trattato costituzionale”, eliminando quelle ritenute alla base del voto negativo di alcuni Stati e riproponendo la procedura di ratifica oppure stipulando accordi internazionali autonomi fra Stati Membri (v. i precedenti del Sistema monetario europeo e del Sistema di Schengen) in materie quali personalità giuridica, presidente del Consiglio, Ministro affari esteri, Parlamenti nazionali e sussidiarietà, difesa… Una procedura che sarebbe probabilmente preferibile a quella della cooperazione rafforzata che l’art. 43 TCE circoscrive ad ambiti abbastanza determinati.
c) Il terzo scenario è soprattutto legato all’ipotesi che sia minimo il numero degli Stati non ratificanti. In tal caso si possono concedere alcune deroghe (come nel precedente della Danimarca, ad esempio) attraverso la procedura di “opting out” che è tuttavia relativamente semplice per le politiche e invece molto più complessa in materia di diritti fondamentali, istituzioni, procedure….Il Consiglio europeo potrebbe comunque indurre questi Paesi a riproporre il loro voto di ratifica, con il dovuto lasso temporale, ma inducendo ad una scelta netta fra l’adesione al Trattato costituzionale e l’uscita dall’UE per quanto con il paracadute di un regime speciale di associazione opportunamente concordato.

4. Il quadro politico in cui si colloca attualmente il processo di integrazione europea certo non fa intravedere, in tempi brevi, ipotesi di riforma del sistema istituzionale comunitario caratterizzati dal superamento, per quanto parziale, di un invece riemergente peso delle sovranità nazionali. Ritengo tuttavia del tutto improbabile che le grandi innovazioni introdotte con il diritto comunitario possano in alcuna maniera essere cancellate, per cui si riproporrà certamente la necessità di un approccio con la procedure di revisione e la loro introduzione negli ordinamenti nazionali più in linea con un ordinamento giuridico progressivamente espressione di una vera e propria natura costituzionale.
L’eliminazione del potere di veto “governativo”, faticosamente conquistata nel corso degli anni, non può essere recuperata dalla nascita di un potere di veto “popolare” quale emerge dal referendum nazionale avente esito negativo.
In realtà oggi possiamo riconoscere comunque l’esistenza di uno “spazio costituzionale europeo” costituito dall’insieme dei valori comuni (derivanti dagli ordinamenti nazionali, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dalla Carta dei diritti fondamentali) ma anche da carte costituzionali sempre più “europeizzate” ed omogenee. E proprio innervandosi su questo “spazio costituzionale europeo” il Consiglio Europeo - magari sulla base di una sollecitazione o proposta di Parlamento Europeo e Commissione Europea – potrebbe attivare, nell’esercizio del suo potere di “impulso necessario” allo sviluppo dell’Unione (art. 4 TUE), una procedura per l’indizione di un “referendum europeo” puramente consultivo diretto a superare politicamente i suddetti ostacoli e consentire le eventuali “forzature” che si rendessero necessarie.
Il metodo del “referendum europeo”, che appare coerente con il principio della democrazia partecipativa di cui all’art. I-47, potrebbe in futuro divenire la procedura unica con la quale operare revisioni importanti del “Trattato costituzionale” (attraverso, ovviamente, gli opportuni adattamenti costituzionali nazionali) magari con il correttivo, rispetto alla maggioranza dei cittadini di tutta Europa, della esistenza di una maggioranza popolare anche in un numero prevalente di Stati.
Ritengo che senza una costruzione dal basso di una “identità costituzionale europea”, anche attraverso strumenti emblematici quali il proposto “referendum europeo”, il processo di integrazione rischia di avere un futuro molto incerto.
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