IL GRAVE COSTO DELLA "NON EUROPA" - Sud in Europa

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IL GRAVE COSTO DELLA "NON EUROPA"

Archivio > Anno 2005 > Giugno 2005

di Ennio TRIGGIANI    
Ci sono momenti nei quali l’orologio della storia rischia seriamente di essere fermato per un tempo che è difficile quantificare. Il voto negativo di Francia ed Olanda sulla ratifica del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa ed il conseguente “congelamento” delle procedure di ratifica deciso nel Consiglio europeo di Bruxelles rappresentano, indubbiamente, una circostanza che deve far riflettere seriamente sull’andamento del processo di integrazione europea e sulla decrescente passione che esso suscita fra i popoli europei. È compito di tutti, istituzioni, governi, partiti politici, sindacati, università, società civile in senso ampio, spiegare meglio il reale significato dell’Europa e quale sarebbe il grave costo della non-Europa. Bisogna avvicinare i cittadini al progetto europeo e farlo sentire come irrinunciabile patrimonio comune valorizzando le questioni che ad essi stanno più a cuore: nuovi e migliori posti di lavoro, crescita economica, sviluppo sostenibile, mantenimento e modernizzazione del modello sociale europeo e rafforzamento della sicurezza. Bisogna in altri termini far comprendere, soprattutto ai giovani, che l’Unione “non è una costruzione artificiale, ma una realtà istituzionale fondata sull’unitarietà della civiltà europea” (come ha detto il Presidente Ciampi in occasione del conferimento del Premio internazionale Carlo Magno).
Eppure il doppio voto negativo in Francia ed Olanda evidenzia, a sua volta, una doppia contraddizione, in quanto espresso su di un testo che, per la prima volta, è frutto non di una mera e verticistica conferenza intergovernativa, ma di una vasta consultazione (la Convenzione per il futuro dell’Unione Europea) la quale ha coinvolto in diversa misura Parlamento europeo, Commissione, Parlamenti nazionali, Enti locali, associazioni. Ma, e soprattutto, perché tale testo contiene innovazioni istituzionali (codecisione generalizzata per il Parlamento Europeo, sussidiarietà più incisiva, trasparenza normativa, Ministro degli affari esteri, ecc…) e modifiche di merito (catalogo dei diritti fondamentali), che dovrebbero avvicinare l’Unione ai popoli ed ai cittadini europei.
L’ulteriore singolarità è legata alla circostanza che risultano bocciate non queste novità (parti I e II del Trattato costituzionale), per le quali mi pare del tutto improbabile si potesse esprimere un voto negativo (si è contro l’innervamento dei diritti fondamentali in Paesi che solo raramente li avevano potuti vivere?), quanto le conseguenze concrete dell’allargamento a 25 nonché alcuni profili di liberalizzazione del mercato (parte III). Ma sono singolarmente proprio questi ultimi ad esprimere il diritto vigente e quindi a non essere nemmeno sfiorati dal problema della ratifica. Gli Stati hanno quindi commesso un grave errore quando non hanno accettato la proposta, pur emersa nei lavori della “Convenzione”, di limitare il testo alle due parti iniziali e cioè quelle che presentano in maniera caratteristica profili di tipo costituzionale.
Ed allora il “vizio di comunicazione” risulta evidente e spiega abbastanza chiaramente la ragione per cui le ratifiche parlamentari, dove previste, non solo, invece, non hanno presentato problemi ma di solito si sono determinate (come in Italia) a larghissima maggioranza ed in modo sostanzialmente bipartisan. Il che potrebbe anche indurre a riflettere sulla discutibilità di sottoporre a referendum popolare questioni che presentano indubbie difficoltà di “lettura” da parte di cittadini disattenti o poco e male informati.
Eppure ritengo che non sia questo il punto. Non può essere infatti disattesa o peggio censurata l’indubbia lontananza con cui il processo di integrazione è vissuto dalla gran parte della gente se non addirittura la negatività che viene ad esso attribuita nei periodi di crisi economica. Certo si dimentica il grande apporto alla stabilità economica fornito (specie per Paesi come l’Italia) dall’euro; ma un euro senza una vera sponda politico-istituzionale risulta inevitabilmente monco. Certo si sottovaluta l’indubbio contributo a più equilibrate dinamiche nelle relazioni internazionali che una Unione Europea compatta potrebbe offrire; ma le divisioni mostrate nella vicenda dell’Irak hanno costituito uno spettacolo desolante.
La “pausa di riflessione” presa dall’ultimo Consiglio europeo di Bruxelles giunge forse opportuna pur nella sua drammaticità. Non è più rinviabile, infatti, il momento di dare un senso più compiuto all’Europa decidendo se rafforzarne (ed in tal caso in quali termini e fra chi) o meno la valenza politica. E comunque occorre mettere in campo un grande sforzo diretto a restituire “popolarità” all’Unione nel senso di esaltarne gli aspetti positivi presso i popoli europei.
Uno strumento utile in questa direzione può essere il referendum europeo. Da un lato il ricorso allo strumento plebiscitario in materie complesse e delicate pone sempre, come già detto, serie perplessità nell’ambito di una democrazia rappresentativa. Ed è anche evidente che sul dibattito referendario è molto probabile vengano scaricate questioni e tensioni interne, come la vicenda francese evidenzia, che poco o nulla hanno a che fare con il quesito sottoposto a decisione. Per queste ragioni, la eventuale necessità di una verifica popolare di determinate scelte non può essere ritagliata nei confini nazionali né è più immaginabile che si continui, sulle tematiche del governo della globalizzazione, a proiettare l’esercizio del diritto di veto, nato su base governativa, in una dimensione nazional-plebiscitaria. Un referendum, allora, non può che avere una dimensione europea consentendo un dibattito vero e generalizzato sulle caratteristiche e gli obiettivi del processo di integrazione ma cogliendone la natura continentale anche grazie alla contemporaneità del dibattito ed all’alto valore politico che potrebbe averne il suo esito.

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Nonostante la complessità del quadro politico appena descritto abbiamo comunque deciso di riportare in questo numero di SudinEuropa parte dei contenuti del Convegno L’Europa delle autonomie alla luce della sua Costituzione, tenutosi a Bari il 13 e 14 maggio scorsi, e cioè prima dei voti francese ed olandese. Da parte di un periodico che da anni tenta di estendere la “consapevolezza” di una cittadinanza europea si tratta di una dimostrazione di fiducia nel processo di integrazione ma anche di un richiamo alla necessità di fare chiarezza sui contenuti effettivi del dibattito in corso. La c.d. Costituzione europea è diventata, da parte di governi e parti politiche irresponsabili, il caprio espiatorio di responsabilità non sue e, nonostante questo, ha ricevuto finora l’approvazione di un numero significativo di Stati. I suoi contenuti, frutto di un lavoro pluriennale, non possono comunque essere semplicisticamente accantonati anche perché non può essere accantonato il problema che ne è alla base e cioè la individuazione di una risposta razionale alla globalizzazione.
Per cui, al di là del come e quando si sarà in grado di uscire dal tunnel in cui ci si è ficcati, è bene che per questa uscita ci si prepari al meglio e con trasparenza chiedendoci tutti quali conseguenze potrebbe avere il frantumarsi del processo di integrazione sulla soluzione dei gravi problemi che affliggono l’inizio del terzo millennio (povertà, ambiente, risorse idriche, migrazioni, diritti umani). Il costo della non Europa, cui si accennava all’inizio, andrebbe quindi esaminato non solo nell’ottica della convenienza economica ma soprattutto della necessità politica ed ideale. Ed il Manifesto di Messina 2005, aperto alla firma in occasione dei 50 anni della Conferenza che pose le basi della CEE, si muove in questa direzione. Ma è necessario recuperare quella passione civile con la quale soltanto si può ridare forza e sogno al processo di integrazione europea, non a caso edificato sul valore fondamentale della pace sul quale soltanto è possibile costruire una società giusta e sana.
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