L'INTEGRAZIONE DIFFERENZIATA NEL TRATTATO DI LISBONA - Sud in Europa

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L'INTEGRAZIONE DIFFERENZIATA NEL TRATTATO DI LISBONA

Archivio > Anno 2008 > Febbraio 2008
di Lucia Serena ROSSI (Ordinario di Diritto internazionale nell’Università di Bologna)    
Nel Trattato di Lisbona l’integrazione differenziata diventa una modalità sempre meno straordinaria nel processo di unificazione europea: molti sono infatti gli strumenti previsti che avranno il risultato di creare all’interno dell’Unione europea zone a più alta o a più bassa integrazione.
Volendoli qui riassumere schematicamente, cominciamo innanzitutto da un’integrazione differenziata già esistente, quella dalla Zona Euro. Il Protocollo n. 6 allegato al Trattato di Lisbona formalizza la prassi già esistente dell’Eurogruppo: i ministri Ecofin dei Paesi euro, assieme ad un rappresentante della Commissione, si riuniscono a titolo informale il giorno prima delle riunioni allargate dell’Ecofin. E’ altresì ufficializzato il fatto che essi eleggono a maggioranza un presidente per due anni e mezzo. Il funzionamento della cooperazione fra i Paesi dell’Eurozona può costituire un modello per tutte le future cooperazioni rafforzate.
Passiamo dunque alle nuove disposizioni sulla cooperazione rafforzata, istituto previsto sin dal Trattato di Amsterdam ma sino ad ora mai concretamente applicato. Infatti le poche volte in cui la sua applicazione è stata ventilata si è creata una situazione per cui o l’atto è stato adottato al di fuori del quadro dell’UE, oppure gli Stati recalcitranti hanno finito per aderire.
L’art. 10 del nuovo Trattato sull’Unione è destinato a sostituire l’attuale art. 11 TCE. Esso stabilisce che il numero minimo degli Stati membri necessari per far partire una cooperazione rafforzata sarà di nove membri anziché, come prevedeva il Trattato costituzionale, 1/3 (sono otto per il Trattato di Nizza). Viene inoltre ribadito che la cooperazione non può riguardare settori di competenza esclusiva dell’Unione, precisandosi altresì che essa è aperta a tutti gli Stati membri, deve essere adottata dal Consiglio solo in ultima istanza (qualora cioè non sia possibile adottare l’atto fra tutti gli Stati membri), e non fa parte dell’acquis (dunque uno Stato che successivamente aderisca all’UE non è tenuto a prendervi parte).
Ma la vera innovazione rispetto ai Trattati attuali è che il Trattato di Lisbona prevede per la cooperazione rafforzata una procedura unica, sia che essa riguardi il mercato interno, sia che venga posta in essere con riferimento ad un aspetto dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Secondo tale procedura (prevista dall’art. 280 D), gli Stati che intendono instaurare fra loro una cooperazione rafforzata trasmettono una richiesta alla Commissione, precisandone obbiettivi e ambito di applicazione. La Commissione può rigettare la richiesta, motivandone le ragioni, oppure accoglierla, presentando la relativa proposta al Consiglio, il quale decide a maggioranza qualificata. La nuova procedura introduce anche la necessità dell’approvazione da parte del Parlamento europeo, il quale attualmente è solamente consultato.
Una volta che la cooperazione sia stata instaurata, gli Stati che vorranno raggiungerla dovranno seguire la procedura di cui all’art. 280 F, notificando la propria intenzione al Consiglio e alla Commissione. Quest’ultima entro quattro mesi conferma o indica le condizioni che lo Stato dovrà adempiere, assegnandogli un termine. Se alla scadenza non sono ancora soddisfatte lo Stato può presentare la sua richiesta al Consiglio (in cui votano solo gli Stati partecipanti alla cooperazione): questa sorta di “appello” rappresenta un’ulteriore novità rispetto a quanto attualmente stabilito dal Trattato.
L’art. 280 H prevede poi un sistema di passerelle, per rendere più efficaci le procedure decisionali all’interno di una cooperazione rafforzata già instaurata: il Consiglio all’unanimità (degli Stati in) può decidere che nell’ambito di una cooperazione rafforzata si decida a maggioranza qualificata anziché all’unanimità o, previa consultazione del Parlamento europeo, che si pas-si da una procedura legislativa speciale alla procedura legislativa ordinaria (che richiede dunque l’approvazione del PE).
Nonostante la formale abolizione di pilastri, il Trattato di Lisbona prevede una procedura differenziata per instaurare una cooperazione rafforzata in ambito PESC. In tal caso gli Stati interessati dovranno sottoporre la richiesta al Consiglio, il quale la trasmette all’Alto Rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione (che è anche Commissario per le relazioni esterne nonché Vicepresidente della Commissione), il quale esprime un parere sulla coerenza con la PESC, e alla Commissione, che esprime un parere sulla coerenza con le altre politiche dell’UE. La proposta verrà trasmessa per conoscenza al PE (il quale è dunque in tal caso solo informato). Se uno Stato vuole aggiungersi alla cooperazione deve notificare la propria intenzione al Consiglio, all’Alto Rappresentante e alla Commissione. Il Consiglio conferma e, su proposta dell’Alto Rappresentante, può imporre misure transitorie e fissare un termine. Tutte le decisioni del Consiglio sono adottate all’unanimità.
Occorre poi ricordare che le Dichiarazioni 30 e 31 allegate al Trattato di Lisbona precisano che la PESC non pregiudica la politica di sicurezza e difesa degli Stati membri né la partecipazione a Organizzazioni internazionali. Dunque, al di là di diverse velocità dovute a cooperazioni rafforzate in tale materia, si dovrà continuare a fare i conti con le divergenti valutazioni politiche che potranno animare la politica estera degli Stati membri.
Può in generale rilevarsi che nel Trattato di Lisbona le nuove procedure per la cooperazione rafforzata risultano semplificate rispetto alla disciplina attuale. Ciononostante si potrebbe supporre che, dato lo scarso successo sino ad ora avuto, l’istituto continui ad essere poco praticato. Vi è però nel nuovo Trattato un nuovo incentivo indiretto, che potrà favorire il ricorso alla cooperazione rafforzata in una parte dello spazio di libertà sicurezza e giustizia. Si tratta del c.d. “Freno di emergenza” previsto per cooperazione giudiziaria penale, diritto penale, Procura europea, cooperazione di polizia (ma non Europol). Secondo il nuovo Trattato in questi settori normalmente si decide con procedura legislativa ordinaria (maggioranza qualificata in Con-siglio e codecisione con il Parlamento europeo), ma ogni Stato può appunto “tirare il freno di emergenza”, chiedendo che la questione sia rinviata al Consiglio: se dopo una sospensione di quattro mesi il Consiglio non decide, se vi sono nove Stati membri interessati essi possono promuovere una cooperazione rafforzata semplificata, semplicemente informando Parlamento europeo, Commissione e Consiglio.
Occorre osservare che sino ad ora nelle materie dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia il destino delle iniziative che non sono riuscite a trasformarsi in atti dell’UE è stato quello di generare cooperazioni al di fuori del quadro comunitario (convenzioni di Schengen e di Pruem): la possibilità di ricorrere ad una cooperazione rafforzata semplificata può dunque contribuire a ricondurre nell’alveo dell’Unione (e dunque al controllo del Parlamento europeo e della Corte di giustizia) iniziative che potrebbero rimanere confinate ad un piccolo club di Stati.
Certo, la cooperazione internazionale, sottratta ad ogni controllo (ma comunque soggetta al limite generale del principio di leale collaborazione), può ancora rimanere la scelta più attraente, se non altro perché nella cooperazione rafforzata votano tutti i membri del PE, anche quelli degli Stati che non sono coinvolti nella stessa.
Una seconda modalità di integrazione differenziata prevista dal Trattato di Lisbona è la cooperazione strutturata permanente, prevista in ambito PESD. Si tratta di una modalità inedita perché, com’è noto, attualmente la cooperazione rafforzata non è possibile per la difesa.
L’art. 27, par. 6 e l’art. 31 del nuovo Trattato sull’UE prevedono la possibilità di istituire forze multinazionali fra Stati membri. Gli Stati che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari e che hanno sottoscritto impegni più vincolanti in materia ai fini delle missioni più impegnative instaurano fra loro una Cooperazione strutturata Permanente. Tali Stati, secondo il Protocollo n. 4, devono essere capaci di intraprendere missioni, anche su richiesta ONU, con una forza di reazione rapida, per almeno un mese e prorogabile almeno per quattro mesi. Essi notificano la loro intenzione al Consiglio e all’Alto Rappresentante. Il Consiglio decide a maggioranza qualificata previa consultazione dell’Alto Rappresentante. Se, successivamente, uno Stato desidera aggiungersi, notifica la sua intenzione al Consiglio e all’Alto Rappresentante. Il Consiglio decide a maggioranza qualificata (degli Stati partecipanti), previa consultazione dell’Alto Rappresentante e può inoltre sospendere uno Stato che non soddisfa più i criteri o non assolve gli impegni.
D’altro canto, differentemente dalla cooperazione rafforzata, è esplicitamente previsto che uno Stato possa ritirarsi dalla cooperazione strutturata. Paradossalmente, la cooperazione strutturata sembra più facile da instaurarsi della cooperazione rafforzata: all’interno di essa si decide sempre a maggioranza qualificata anziché ad unanimità, ed inoltre non è previsto un numero minimo di Stati partecipanti.
La cooperazione strutturata in materia di difesa si affianca nel nuovo trattato ad altri strumenti. Il Consiglio può affidare ad un gruppo di Stati una missione, che sarà gestita in associazione con l’Alto Rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione. L’Agenzia per la difesa è già stata istituita con un’azione comune nel luglio 2004 ed è aperta a tutti gli Stati che desiderano parteciparvi.
Le ipotesi di integrazione differenziata che abbiamo sino ad ora considerato sono basate su avanguardie. L’integrazione differenziata può nascere però anche da retroguardie, od autoesclusioni da parte di alcuni Stati membri. In tal senso già in passato sono stati utilizzati dei Protocolli, che ritagliano, in sede di riforma dei trattati istitutivi, posizioni particolari per alcuni Stati membri (opting out e opting in) (è il caso dei Protocolli Schengen, attualmente vigenti, per Regno Unito, Irlanda e Danimarca o, in passato, dei Protocolli sulla Carta sociale per il Regno Unito). Il Trattato di Lisbona ha non solo mantenuto, ma addirittura allargato, il numero e la portata dei Protocolli di autoesclusione.
Va innanzitutto menzionato l’opting out sulla Carta dei diritti fondamentali, ottenuto dal Regno Unito e poi ambiguamente reclamato anche dalla Polonia (che però dichiara di riconoscere i diritti dei lavoratori). Il Protocollo n. 7, secondo il quale “in particolare, nulla nel Titolo IV estende la competenza della Corte di giustizia o di qualunque altro giudice a ritenere che le norme inglesi siano contrarie o crea diritti rivendicabili”, sembrerebbe di primo acchito configurare un’applicazione differenziata della Carta, a cui il Regno Unito risulterebbe impermeabile. Esso può dar luogo a due interpretazioni diverse: non è chiaro infatti se l’opting out è esercitato su tutta la Carta o solo sul titolo so-ciale.
L’obiettivo di tale Protocollo è prima di tutto ideologico: esso contribuisce alla decostituzionalizzazione della Carta, perché principi che non tutti gli Stati membri condividono non possono certo dirsi costituzionali. Da un punto di vista pratico, gli effetti sono forse minori. Il Protocollo non estende la competenza dei giudici inglesi, ma nemmeno la restringe: di conseguenza tali giudici (e probabilmente anche quelli polacchi) non potranno effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sulla Carta, ma potranno farlo sulla base del Trattato, della Cedu, delle tradizioni costituzionali comuni e, naturalmente, degli atti dell’Unione. Difficilmente poi tali giudici potranno ignorare principi che la Corte di Giustizia stabilisca su rinvio di altri giudici nazionali. La stessa Corte, riferendosi a questi Paesi dovrà riferirsi non alla Carta ma alle altre fonti ora ricordate.
Quanto agli altri Protocolli di opting out, quelli relativi allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia previsti dal Trattato di Lisbona sono più estesi di quelli attuali. È il prezzo per avere introdotto la votazione a maggioranza qualificata: in particolare il Regno Unito non si è accontentato del freno di emergenza (che comunque si applica solo a certi settori), ma ha voluto Protocolli ad hoc.
Per effetto dei nuovi Protocolli Regno Unito, Irlanda e Danimarca (che l’aveva già negoziato con il Trattato costituzionale) avranno un opt out generale con opt in su singole misure (ma non per la Danimarca) su tutto lo spazio, compreso la polizia e il diritto penale (attualmente il loro opting out è limitato ad asilo, immigrazione e cooperazione giudiziaria civile). Inoltre tali Stati possono autoescludersi anche dopo che hanno esercitato l’opt in su singole materie. Nell’ultimo scorcio negoziale di ottobre essi hanno ottenuto anche di poter uscire dalle modifiche di norme in cui erano entrati prima del Trattato di Lisbona. In tal caso tuttavia il Consiglio può sollecitarli ad entrare se pensa che altrimenti le misure siano inoperabili e persino addebitare loro le conseguenze finanziarie. D’altro canto, con il Trattato di Lisbona, almeno per gli Stati in, ora non vi saranno più differenze sulla possibilità per i giudici nazionali di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia nelle materie dello spazio di libertà sicurezza e giustizia (attualmente nelle materie civili è solo per giudici di ultima istanza mentre in quelle penali è facoltativo, ed è stato accettato solo da quattordici Stati membri, due dei quali l’hanno limitato ai giudici di ultima istanza): anche quelli inglesi e irlandesi nelle materie di opt in potranno farlo. La Corte di giustizia ora ha piena giurisdizione (compreso ricorso per infrazione) anche sulle vecchie misure del terzo pilastro (ma per cinque anni non nelle materie di polizia e penali).
Anche il nuovo Protocollo di Schengen risulta rafforzato: il Regno Unito e l’Irlanda possono uscire dalle misure di applicazione di Schengen sulle quali avevano in passato esercitato l’opt in (immigrazione illegale, polizia, diritto penale, SIS) per sfuggire alla nuova piena giurisdizione della Corte. Va infine rilevato che per la prima volta nella storia dei trattati europei, viene introdotta la facoltà per gli Stati membri di recedere dalla loro membership (art. 35 UE); in tal caso accordi particolari preciseranno cosa rimarrebbe in piedi, nei rapporti fra detto Stato e gli altri membri, dell’integrazione esistente. È questa l’ipotesi più estrema di integrazione differenziata, ma proprio perché così estrema è forse anche la più improbabile.
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