I GIUDICI COMUNITARI CONDANNANO L'ITALIA PER L'INCOMPLETO RECEPIMENTO DELLA DIRETTIVA 98/59 - Sud in Europa

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I GIUDICI COMUNITARI CONDANNANO L'ITALIA PER L'INCOMPLETO RECEPIMENTO DELLA DIRETTIVA 98/59

Archivio > Anno 2003 > Dicembre 2003
di Donatella DEL VESCOVO    

Con sentenza del 16 ottobre la Corte di Giustizia riafferma quali sono i destinatari della normativa comunitaria in tema di licenziamento collettivo: si tratta di tutti i datori di lavoro che intendono procedere a un licenziamento collettivo come conseguenza di una riorganizzazione aziendale, e non - come nella legislazione italiana - soltanto di imprese e/o aziende.
Si è così conclusa, con una vittoria della Commissione Ue, la disputa con l’Italia sullo spinoso tema dei licenziamenti collettivi (causa C-32/02).
La Corte di Giustizia europea ha infatti stabilito che la normativa italiana «è parzialmente incompatibile» con la direttiva europea che mira a rafforzare la tutela dei lavoratori in caso di licenziamenti collettivi e che l’ombrello protettivo previsto dalla direttiva 98/95 va quindi esteso ai dipendenti di sindacati, fondazioni, associazioni, partiti politici ed altre associazioni senza scopo di lucro.
In altre parole, per la Corte anche i datori di lavoro non imprenditori (per esempio persone fisiche non organizzate in forma imprenditoriale, associazioni sindacali, partiti, associazioni senza scopo di lucro) dovrebbero seguire la procedura per i licenziamenti collettivi definita dalla legge 223/91.
Secondo la Corte, la legge 223/91 (che contiene norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea e avviamento al lavoro) farebbe esclusivo riferimento ai licenziamenti collettivi effettuati dalle imprese, ovvero dai soggetti economici qualificabili come imprenditori. Da qui l’incompatibilità della legislazione italiana - che circoscrive ai datori di lavoro che perseguono scopi di lucro le regole della legge 223/91 - con la direttiva europea.
Infatti, per il diritto italiano (l’articolo 2082 del Codice civile), le persone, gli organismi o gli enti pubblici e privati che non perseguono uno scopo di lucro non possono essere inquadrati con la nozione di imprenditore, né pertanto essere qualificati alla stregua di imprese.
Un ostacolo, questo, per la piena applicazione della direttiva 98/59. La Commissione aveva ritenuto che - come riassume la Corte - «la direttiva 98/59, pur non contenendo alcuna definizione della nozione di datore di lavoro, trovi applicazione nei confronti di tutti i datori di lavoro, che perseguano o meno uno scopo di lucro. Dato che la direttiva prevede precise eccezioni per quanto riguarda il suo ambito di applicazione gli Stati membri non potrebbero limitare quest’ ultimo interpretando restrittivamente taluni termini utilizzati da tale disposizione, in particolare il termine “datore di lavoro”».
L’articolo 24 della legge 223/91 prevede che la procedura di mobilità prevista agli articoli 4 e 5 della stessa legge si applica «alle imprese che occupino più di quindici dipendenti e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia». Le stesse disposizioni si applicano a tutti i licenziamenti irrogati nei 120 giorni che siano riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione aziendale, nonché in caso di cessazione totale di attività da parte dell’impresa. Restano esclusi i rapporti di lavoro a termine, quelli che terminano con l’ultimazione dei lavori edili e quelli per attività stagionali o saltuarie.
Per contro, l’articolo 1 della direttiva 98/59 prevede che per licenziamento collettivo si intende ogni licenziamento effettuato da un datore di lavoro per uno o più motivi non inerenti alla persona del lavoratore. Detto altrimenti, alla definizione di imprenditore in base all’articolo 2082 del Codice civile (identificato come «chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e di servizi») si sostituisce una generica e onnicomprensiva definizione di datore di lavoro come colui che, a qualunque fine, disponga delle energie lavorative di un proprio dipendente.
La Commissione Ue si era quindi rivolta ai giudici, ritenendo che la normativa italiana di recepimento della direttiva 98/59 avrebbe creato «un’esenzione legale per tutti i datori di lavoro che nell’ambito della loro attività non perseguono uno scopo di lucro, pur occupando centinaia di persone o godendo di grande rilevanza economica».
Tra questi figurano sindacati, fondazioni, partiti politici, e associazioni. L’Esecutivo europeo, sottolinea la Corte, ha preso la decisione anche in seguito a una serie di reclami relativi a casi concreti di mancata applicazione della normativa italiana per licenziamenti collettivi a lavoratori dipendenti di organismi senza fini di lucro, come la Coldiretti e la Confcommercio.
La Corte di Giustizia ha dato ragione alla Commissione e ha richiamato il nostro Paese stabilendo che il termine “datori di lavoro” si riferisce anche a chi, nell’ambito della propria attività, non persegue scopo di lucro. «Come risulta dalla stessa formulazione dell’articolo 1 della direttiva - spiega la Corte - tale disposizione si applica ai licenziamenti collettivi effettuati da un “datore di lavoro” senz’altra distinzione, cosicché essa riguarda tutti i datori di lavoro.
L’interpretazione contraria non sarebbe neanche conforme alla ratio di tale direttiva». Come immediata conseguenza dell’eventuale recepimento di questo orientamento, anche i datori di lavoro che non perseguono fini di lucro saranno tenuti a osservare le procedure e a garantire le tutele previste dalla normativa sul licenziamento collettivo: comunicazioni alle rappresentanze sindacali e successivi incontri in sede sindacale e amministrativa per poi procedere, in caso di esito negativo o per decorso del termine massimo per la procedura di mobilità, al licenziamento.
La sentenza della Corte arriva prima che la normativa italiana abbia potuto attuare il già previsto riavvicinamento tra le legislazioni, infatti l’articolo 20 della Comunitaria 2002 (legge 3 febbraio 2003, n. 14, pubblicata sul supplemento ordinario alla «Gazzetta Ufficiale» n. 31 del 7 febbraio 2003), per sanare queste differenze aveva delegato il Governo - entro un anno dall’entrata in vigore, cioè dal 22 febbraio scorso - a modificare la legge 223, proprio in relazione alla causa C-32/02.
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